IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE 
 
 
                        Sezione prima penale 
 
    In composizione monocratica in persona del giudice dott.  Stefano
Sernia. 
    All'udienza dibattimentale del giorno 5 luglio 2018 nel  processo
nei confronti di M. A., nato a...il...letti gli  atti  e  sentite  le
parti, ha pronunziato la seguente ordinanza. 
    Si procede a  giudizio  ordinario  a  seguito  dell'emissione  di
decreto  che  ha  disposto  il  giudizio  immediato;  l'imputato   e'
sottoposto  alla  misura  cautelare  dell'obbligo  di   presentazione
giornaliera alla p.g.. 
    All'udienza del 28  giugno  2018,  presente  l'imputato,  il  suo
difensore ha concordato con il pubblico ministero l'acquisizione,  al
fascicolo per il dibattimento,  dell'intero  fascicolo  del  pubblico
ministero: il che appare possibile ai sensi dell'art.  555,  comma  4
del codice di procedura  penale,  sebbene  la  via  maestra  per  una
decisione  poggiante  sul  contenuto  del  fascicolo   del   pubblico
ministero sia, ovviamente, il  rito  abbreviato;  cio'  tuttavia  non
comporta l'illegittimita' di un ripensamento della  parte  in  ordine
alla superfluita' di un vaglio in  dibattimento  del  materiale  gia'
acquisito, fermo restando che,  ovviamente,  per  non  aver  eseguito
tempestivamente  la  scelta  del  rito,  non   avra'   diritto   alla
diminuzione di pena per esso prevista, nulla peraltro escludendo  che
il suo comportamento  di  «desistenza  dibattimentale»  possa  essere
valutato ex art. 133 del codice penale quale comportamento successivo
al reato. 
    Cio' posto, e rilevato che,  non  essendo  stato  chiesto,  dalle
parti, l'esame dei  testi  a  suo  tempo  indicati  nella  lista  del
pubblico ministero, divengono utilizzabili tutti  i  verbali  formati
nel corso delle indagini, va rilevato che la prova  poggia  tutta  ed
esclusivamente sugli esiti della perquisizione  domiciliare  eseguita
dalla  p.g.  in  forza  di  propalazioni  provenienti  da  una  fonte
confidenziale; perquisizione eseguita, peraltro, dopo che gia'  senza
esito  alcuno  la  p.g.  aveva  immediatamente  prima   proceduto   a
perquisire un giovane, e poi la madre dell'imputato, usciti  da  tale
abitazione, senza che essi fossero risultati in possesso di  sostanze
stupefacenti; il tutto, peraltro, e  nella  descritta  condizione  di
deserto  probatorio,  senza   previamente   informare   il   pubblico
ministero,  sebbene  quello  di  turno  dovesse   essere   senz'altro
agevolmente e senza disturbo  reperibile  (la  perquisizione  risulta
essere stata eseguita a partire dalle ore  17.30);  in  occasione  di
detta   perquisizione,   nella    stanza    asseritamente    occupata
dall'imputato, la p.g. rinvenne la sostanza stupefacente indicata  in
epigrafe, oltre ad alcuni semi di canapa  indiana  (non  indicati  in
epigrafe),  e  due  bilancini  di  precisione,  nonche'  dei  ritagli
circolari di cellophane, del tipo utilizzato per  il  confezionamento
della sostanza stupefacente in piccole dosi; i 219 gr.  di  marijuana
di cui in imputazione erano collocati, gia' suddivisi in singole dosi
(come si desume dalla visione delle fotografie in atti),  all'interno
di un contenitore in vetro. 
    Nel p.v. di arresto e perquisizione si  da'  atto  che,  in  quel
contesto,  e  senza  assistenza  di  un  difensore  (e   quindi   con
dichiarazioni inutilizzabili ai sensi di  quanto  previsto  dall'art.
350, comma 6 del codice di procedura penale,  che  non  si  limita  a
dettare una «inutilizzabilita' di  fase»,  vietando  invece  di  tali
dichiarazioni «ogni documentazione ed utilizzazione»),  il  M.  aveva
dichiarato di custodire la sostanza per conto di un terzo di cui  non
intese  fare  il  nome;  in  occasione  dell'udienza  di   convalida,
l'imputato si e' avvalso della facolta' di non rispondere. 
    La perquisizione e' stata convalidata dal pubblico ministero  sul
presupposto che fosse  stata  eseguita  nei  casi,  che  il  pubblico
ministero peraltro non indica e  sulla  cui  ricorrenza  non  motiva,
previsti dalla legge. 
    Va quindi osservato che detta perquisizione non solo non e' stata
eseguita in flagranza di reato ai sensi dell'art. 352 del  codice  di
procedura penale (laddove la flagranza e' la  situazione  di  attuale
commissione del reato  percepita  dall'ufficiale  di  p.g.  prima  di
procedere al compimento degli atti che la  presuppongono),  ma  anche
senza rispettare i casi di cui all'art. 103  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309/1990, atteso che: 
        a)  il  pubblico  ministero,  non  e'  stato  preventivamente
avvisato neanche telefonicamente, sebbene  non  sia  stata  descritta
alcuna situazione di necessita' ed urgenza; 
        b) non risultava ne' una situazione di flagranza, ne'  alcuna
altra situazione oggettiva che potesse  giustificare  la  convinzione
che in quell'abitazione fosse in  corso  un'attivita'  di  spaccio  o
comunque vi venisse detenuta  sostanza  stupefacente  destinata  allo
spaccio. 
    Si pone quindi il problema della liceita' della  perquisizione  e
della utilizzabilita' dei suoi esiti; e della costituzionalita' della
disciplina in tal senso vigente, quale risultante del diritto vivente
nascente dalla monolitica giurisprudenza di legittimita', stabilmente
applicata anche in sede locale dal competente Tribunale del riesame e
dalla Corte di appello. 
    La questione e' gia' stata sollevata da questo stesso  magistrato
quale  GUP  con  ordinanza  emessa  in  data  5   ottobre   2017,   e
successivamente nuovamente e piu'  approfonditamente  articolata  con
ordinanza emessa, sempre in veste di GUP, all'udienza del 12 dicembre
2017, le cui argomentazioni si riproducono in questa sede in corsivo,
con  l'eventuale  aggiunta,  in  caratteri  normali,   di   ulteriori
considerazioni ed argomentazioni a sostegno di tale questione. 
    Va invero premesso che l'imputato non e' gravato da precedenti in
materia di stupefacenti, e che le  fonti  confidenziali  non  possono
essere in alcun modo utilizzate  (argomenta  ex  articoli  273,  195,
comma 7 e 203 del codice di procedura penale) per la prova dei  fatti
(ivi compresa, ex art. 187 del codice di procedura penale,  la  prova
dei fatti da  cui  discende  l'applicazione  di  norme  processuali),
sicche' - escluso  che  nella  situazione  scorta  dalla  p.g.  fosse
rilevabile una situazione di flagranza di reato (tanto piu' una volta
che si era accertato che le persone uscite dalla sua abitazione erano
persone delle quali  nessun  collegamento  poteva  asserirsi  con  le
sostanze stupefacenti) - va altresi' ritenuto  che  non  ricorressero
quei fondati motivi che ex art.  103  decreto  del  Presidente  della
Repubblica   n.   309/1990   avrebbero   potuto    legittimare    una
perquisizione, apparendo inammissibile la tesi che  pretenda  che  il
giudice debba ritenere la sussistenza dei presupposti di  tali  atti,
solo  perche'  lo  affermi,  senza  alcuna  concreta  indicazione   o
spiegazione, la p.g.. 
    Con le ordinanze con cui la questione e' gia' stata sollevata,  e
di cui si e' detto, si e' osservato, e qui si reitera,  che  «invero,
la  situazione  di  flagranza  di  reato,  che  evidentemente  si  e'
manifestata solo dopo la perquisizione, non puo' aver  quindi  svolto
la funzione di preventiva legittimazione di tale atto, che  la  legge
ordinaria (articoli 354 e 356  del  codice  di  procedura  penale)  e
costituzionale (articoli 13 e 14 Costituzione) le assegnano in deroga
al principio generale per cui  simili  atti,  limitando  la  liberta'
personale (e della inviolabilita' del domicilio per quel che  attiene
alla  perquisizione  domiciliare),  possono  essere   disposti   solo
dall'A.G. e nei casi e modi previsti dalla legge; allo  stesso  modo,
un non meglio specificato «atteggiamento sospetto» non puo' valere  a
significare la  ricorrenza  di  un  fondato  motivo  atto,  ai  sensi
dell'art. 103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990,  a
far ritenere il possesso di sostanze stupefacenti. 
    Cio'  premesso,  va  sottolineata  la  cautela  del   legislatore
costituzionale, che ha assegnato solo  all'Autorita'  giudiziaria  il
potere di disporre atti di  perquisizione  ed  ispezione,  prevedendo
solo in via eccezionale quelli [rectius quello] della p.g.  ed  entro
ambiti ben delimitati, fissati dalla  legge,  e  con  rispetto  delle
garanzie di liberta' della persona. 
    I limiti fissati dalla legge si atteggiano,  invero,  in  ragione
della previsione costituzionale che li assiste, come  invalicabili  e
di  stretta  interpretazione;  e   qualsiasi   interpretazione   che,
comunque, si risolva in una vanificazione dei limiti posti alla  p.g.
(ad es., impedendo la verifica circa il rispetto di  tali  limiti;  o
stabilendo l'irrilevanza processuale  di  tali  violazioni)  o  nella
lesione - sia pure mediata -  della  liberta'  personale,  appare  da
rigettarsi. 
    Invero, l'art. 13 Costituzione (richiamato, quanto a  garanzie  e
forme ivi previste, dall'art. 14 Costituzione in tema  di  ispezioni,
perquisizioni e sequestri domiciliari) prescrive  che  ogni  atto  di
limitazione della liberta' personale - tra i quali annovera non  solo
l'arresto o il fermo,  ma  anche  le  perquisizioni  e  le  ispezioni
personali  -  sia  riservato   ad   «atto   motivato   dell'autorita'
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; riserva  di
legge e di provvedimento dell'Autorita' giudiziaria, quindi, cui puo'
derogarsi solo per casi eccezionali previsti dalla legge, atteso  che
la norma  prosegue  prevedendo  che  solo  «in  casi  eccezionali  di
necessita'  ed  urgenza,   indicati   tassativamente   dalla   legge,
l'autorita'  di  pubblica  sicurezza  puo'   adottare   provvedimenti
provvisori,  che  devono  essere  comunicati  entro  quarantotto  ore
all'autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li  convalida  nelle
successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi  di
ogni efficacia». 
    Ai sensi dell'art. 13 Costituzione, il legislatore costituzionale
accoglie e tutela la nozione di atti di «restrizione  della  liberta'
personale»  in  un'accezione  particolarmente  ampia,  ricomprendente
tutti i  casi  in  cui  la  persona  fisica  di  un  individuo  debba
sottostare a qualsiasi forma di manipolazione da parte  degli  organi
pubblici e farsi oggetto di una loro attivita'; sono quindi  atti  di
restrizione della liberta'  personale  non  solo  quelli  in  cui  la
liberta'  di  movimento  venga  limitata  impedendo  all'imputato  di
allontanarsi da un determinato luogo  istituzionalizzato  e  definito
(carcere; residenza), come e' nei casi dell'arresto o del  fermo,  ma
anche tutti quegli atti che comunque, nel rendere la  persona  fisica
oggetto di un'attivita'  altrui  anche  di  breve  durata,  per  quel
periodo di tempo ne  escludano  la  liberta'  di  allontanarsi  e  la
pongano in una condizione di soggezione alle altrui manipolazioni. 
    Ed invero, senz'altro va osservato che, con la sottoposizione  ad
atti  di  ispezione  e  perquisizione  personale,  si  realizza   una
limitazione della liberta' personale, non foss'altro perche'  per  il
compimento di tali  atti  la  persona  si  vede  limitata  nella  sua
liberta'  di  locomozione  e  volizione  perche'  assoggettata   alla
potesta' pubblica, costretta  a  sottoporsi  al  compimento  di  atti
invasivi (e potenzialmente anche  pesantemente  invasivi)  della  sua
sfera  personale  (o  domiciliare).  E'  quindi  per  tali   ragioni,
evidenzianti come il compimento di tali atti si ponga in  termini  di
concreta   lesione    di    diritti    costituzionali    fondamentali
dell'individuo, che, a garanzia  dell'effettivita'  della  tutela  di
tali diritti, il legislatore costituzionale stabilisce in primo luogo
che solo la legge puo' e deve indicare i casi ed i  modi  in  cui  e'
possibile procedere a tali atti,  riservando  inoltre  il  potere  di
disporli all'Autorita'  giudiziaria,  che  puo'  adottarli  solo  con
provvedimento motivato. 
    I suddetti  diritti  sono  quindi  assistiti  -  a  sottolinearne
l'importanza nell'assetto democratico  dell'ordinamento  repubblicano
voluto dal legislatore costituzionale come fondato  sulla  tutela  di
quelle  liberta'  individuali  tendenzialmente  negate  o  fortemente
compresse dal precedente regime -  da  un  corredo  di  significative
cautele date  dalla  riserva  di  legge,  dalla  riserva  del  potere
giudiziario, dall'obbligo di provvedere con atto motivato. 
    Solo in casi eccezionali di necessita'  ed  urgenza,  che  spetta
alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza
(e cioe' alle Forze di polizia, che di  tali  compiti  sono  titolari
unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito  un  potere
di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in  caso
di mancata  convalida  da  parte  dell'A.G.  con  provvedimento  che,
sebbene  cio'  non  sia  espressamente  previsto  dalla  norma,  deve
ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato che non vi e' ragione
di ritenere che  il  legislatore  costituzionale,  per  l'ipotesi  di
particolare delicatezza costituzionale data della convalida  (la  cui
funzione  e'  verificare  che  la  p.g.  non  abbia  agito  in   tali
delicatissime materie abusando dei propri poteri, fuori dei  casi  in
cui essi sono loro riconosciuti), abbia voluto esonerare  l'Autorita'
giudiziaria dalla necessita' di motivare i propri provvedimenti (come
peraltro previsto gia'  in  via  generale  dall'art.  111,  comma  6,
Costituzione). 
    Come si e' accennato, tali  garanzie  sono  estese  dall'art.  14
Costituzione anche al caso delle perquisizioni, ispezioni e sequestri
domiciliari, giusta il richiamo che tale norma  opera  alle  garanzie
prescritte  (dall'art.  13  Cost.)  per  la  tutela  della   liberta'
personale; caso che in questo caso specifico non interessa, ma che si
ritiene utile menzionare al fine di sottolineare l'unitarieta'  della
visione del legislatore costituzionale in tema di tutela di  liberta'
fondamentali della persona. 
    L'ipotesi principale ed originaria prevista dalla legge ordinaria
a legittimare l'intervento eccezionale delle  forze  di  polizia,  e'
data dai casi di flagranza di reato, allorche' gli organi di  polizia
intervengono in un momento in cui il reato e' in corso di esecuzione,
o il reo, subito dopo la commissione del reato, ne  reca  indosso  le
tracce, o e' inseguito dalla  polizia,  dalla  persona  offesa  o  da
altri: casi di evidenza probatoria che, nel giudizio del legislatore,
rendono  meno  pericolosa  la   deroga   ai   poteri   dell'Autorita'
giudiziaria (cfr. sul punto anche C. cass. SS.UU. 39131/2015  che  ha
anche statuito,  in  tale  linea  di  pensiero,  che  la  c.d.  quasi
flagranza rileva solo in quanto le forze di polizia abbiano assistito
alla commissione del reato o abbiano direttamente percepito le tracce
del reato sulla persona del reo). 
    Non si e' mai dubitato che le ipotesi della flagranza  di  reato,
concorrendo  il  requisito  della  pericolosita'   dell'autore   come
segnalata  dalla  sua  personalita'  o  dalla  gravita'   del   reato
(pericolosita' e gravita' presunte nei casi dei piu' gravi delitti di
cui all'art. 380 del codice di procedura penale, e da  valutarsi  nel
concreto nei casi di cui all'art. 381 del codice di procedura penale)
valgano ad  individuare  delle  ipotesi  generali  di  necessita'  ed
urgenza  tassativamente  ben  delineate,  in   cui   si   giustifichi
l'esercizio provvisorio del poteri di arresto da  parte  della  p.g.;
cosi', in relazione alla gravita' del  reato  (che  la  legge  ancora
all'entita' della pena o all'appartenenza a ben definite tipologie di
delitto), il pericolo di fuga appare altra situazione  di  necessita'
ed urgenza che  legittimi  l'esercizio  del  potere  di  fermo  e  la
conseguente restrizione della liberta' personale. 
    Allo stesso modo, senz'altro la flagranza del reato  integra  una
situazione di necessita' ed urgenza quanto agli atti di perquisizione
e conseguente sequestro ad opera della p.g., finalizzati ad acquisire
al processo fonti di prova che altrimenti il reo, sapendo  di  essere
stato  scoperto,  provvederebbe  verosimilmente   a   distruggere   o
disperdere; sicche' anche gli  articoli  352  e  354  del  codice  di
procedura penale appaiono rispettosi del dettato costituzionale. 
    Sia per le perquisizioni e sequestri che per gli atti di  arresto
e fermo, la legge prevede poi la necessita' della convalida da  parte
dell'A.G., con provvedimento motivato, ed il  dettato  costituzionale
e' rispettato. 
    Norme speciali  hanno  ampliato  i  casi  in  cui  alla  p.g.  e'
consentito procedere ad atti di ispezione e perquisizione. 
    Oltre all'ipotesi prevista dall'art. 4 della  legge  n.  152/1975
(che prevede la perquisizione  personale,  nei  casi  eccezionali  di
necessita'  ed  urgenza,  alla  ricerca  di  armi  e   strumenti   di
effrazione, nei confronti di soggetti la cui presenza o atteggiamento
non appaia  giustificabile  in  relazione  a  specifiche  o  concrete
circostanze di tempo o di luogo) e dall'art. 41 TULPS - che  peraltro
riguarda le perquisizioni domiciliari e non quelle personali - per la
ricerca di armi di cui, anche per indizio, la polizia  abbia  notizia
dell'esistenza all'interno di locali pubblici o privati, quella  piu'
frequentemente ricorrente e' quella di cui all'art. 103, comma 2 e  3
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 che disciplinano,
rispettivamente, le attivita' di controllo ed ispezione dei mezzi  di
trasporto e dei bagagli e degli effetti  personali,  e  gli  atti  di
perquisizione in senso stretto, sia  domiciliari  che  personali;  in
tutti tali casi e' previsto un provvedimento di  controllo  da  parte
dell'Autorita' giudiziaria, nella specie il pubblico  ministero,  che
assumera' le forme della convalida nel caso degli atti  di  ispezione
controllo,  e  quello  dell'autorizzazione  preventiva,  anche  orale
telefonica, nei casi di perquisizione (in verita', l'art. 4, legge n.
152/1975 prevede solo l'invio  del  verbale  al  pubblico  ministero,
essendo  verosimilmente  apparsa  implicita   la   necessita'   della
convalida, in  base  ai  principi  generali);  solo  per  i  casi  di
particolare necessita' ed urgenza che non  consentano  di  richiedere
l'autorizzazione telefonica, la polizia puo'  procedere  ad  atti  di
perquisizione senza previa autorizzazione del pubblico ministero, che
dovra' comunque successivamente convalidare, se del  caso,  l'operato
della p.g. 
    Invero, l'art. 103 decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.
309/1990 cosi' recita: 
        «2. Oltre  a  quanto  previsto  dal  comma  1  [che  riguarda
ispezioni  e  perquisizioni  negli  spazi  doganali,   n.d.r.],   gli
ufficiali  e  gli  agenti  di  polizia  giudiziaria,  nel  corso   di
operazioni di  polizia  per  la  prevenzione  e  la  repressione  del
traffico illecito di  sostanze  stupefacenti  o  psicotrope,  possono
procedere in ogni luogo al controllo e  all'ispezione  dei  mezzi  di
trasporto, dei bagagli e degli effetti personali quando hanno fondato
motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti
o psicotrope. Dell'esito dei controlli e delle ispezioni  e'  redatto
processo verbale in appositi moduli, trasmessi entro quarantotto  ore
al  Procuratore  della  Repubblica  il  quale,  se  ne  ricorrono   i
presupposti, li convalida entro le  successive  quarantotto  ore.  Ai
fini dell'applicazione  del  presente  comma,  saranno  emanate,  con
decreto del Ministro dell'interno di concerto con  i  Ministri  della
difesa e delle finanze,  le  opportune  norme  di  coordinamento  nel
rispetto delle competenze istituzionali. 
    3. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano  motivi
di particolare necessita' ed urgenza che non consentano di richiedere
l'autorizzazione  telefonica  del  magistrato   competente,   possono
altresi' procedere a perquisizioni dandone notizia, senza  ritardo  e
comunque entro quarantotto ore, al Procuratore  della  Repubblica  il
quale,  se  ne  ricorrono  i  presupposti,  le  convalida  entro   le
successive quarantotto ore. 
    L'art. 103 decreto del Presidente della Repubblica  n.  309/1990,
pertanto, legittima  -  nel  corso  di  operazioni  finalizzate  alla
prevenzione e repressione dei reati in  tema  di  stupefacenti  -  le
perquisizioni, anche fuori dei casi di flagranza, allorche'  la  p.g.
abbia «fondato motivo di ritenere» (analogamente alla «notizia  anche
per indizio» secondo quanto prescrive l'art.  41  TULPS  in  tema  di
perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi)  che  taluno  detenga
sostanza stupefacente; con l'ulteriore necessita' dell'autorizzazione
telefonica preventiva del pubblico ministero  o,  ove  l'urgenza  non
consenta  di  ricercarla,  successiva   comunicazione   al   pubblico
ministero e convalida ad opera dello stesso. 
    A parere di questo giudice, un'interpretazione di tutte le  norme
surrichiamate,   che   voglia   essere   rispettosa    del    dettato
costituzionale, impone che, perche' la p.g. possa procedere a  quegli
atti limitativi della liberta' personale  e  dell'inviolabilita'  del
domicilio,  che  sono  gli  atti   di   perquisizione   personale   o
domiciliare, debba ricorrere un requisito minimo di comprovabilita' e
verificabilita' della ricorrenza del  presupposto  all'esercizio  del
potere di perquisizione da  parte  della  p.g.:  fuori  dei  casi  di
flagrante  detenzione  di  armi  o  stupefacenti,   pertanto,   sara'
necessario che di tale detenzione, quale condizione  legittimante  la
perquisizione da compiersi, dovranno gia' esservi almeno indizi,  sia
pure semplici e non gravi; ma non potra' procedersi al di sotto della
soglia indiziaria, espressamente richiesta dall'art. 41 TULPS,  e  la
cui assenza impedirebbe il concretizzarsi del «fondato motivo» di cui
all'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica  n. 309/1990
o la condivisibile valutazione di «ingiustificatezza» della  presenza
del perquisendo «in relazione a specifiche o concrete circostanze  di
tempo o di luogo» prevista dall'art. 4 della legge n. 152/1975. 
    Una diversa interpretazione attribuirebbe, di fatto, alla p.g. un
potere  insindacabile  di  procedere  ad  atti  di  perquisizione,  e
vanificherebbe quindi quei  limiti  che  la  Costituzione  ha  invece
ritenuto necessari, sia  pure  demandandone  la  determinazione  alla
legge ordinaria; e la legge ordinaria, per quel che qui interessa, ha
richiesto che la p.g. abbia fondato motivo  di  ritenere  che  taluno
detenga sostanza stupefacente; e l'esistenza di  un  indizio  in  tal
senso deve necessariamente essere verificabile, posto che  altrimenti
si attribuirebbe alla p.g. il potere di ledere ad libitum la liberta'
personale e violare la vita privata e domiciliare della  persona  (in
spregio anche a  quanto  prescritto  dall'art.  8  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo). 
    Se cosi' non fosse, se si ammettesse (come non di rado la Suprema
Corte  ha  affermato)  la  liberta'  della  p.g.   di   procedere   a
perquisizione  in  forza  di  un  mero  inverificabile  e  soggettivo
sospetto, o di un asserito «indizio» che non dovesse  essere  nemmeno
specificato nella fonte (C. cassazione sez. 3, sentenza n. 19365  del
17 febbraio 2016,  ad  es.,  che  e'  giunta  ad  affermare  che  «Le
perquisizioni che la polizia giudiziaria, nel  caso  di  sospetto  di
illecita  detenzione  di  sostanze  stupefacenti,  e'  legittimata  a
compiere  in  forza  del  disposto  dell'art.  103  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, non presuppongono
necessariamente  la  commissione  di  un  reato,  ma  possono  essere
effettuate sulla base di  notizie  confidenzialmente  apprese,  senza
obbligo di avvertire la persona sottoposta a  controllo  del  diritto
all'assistenza di un difensore; in ogni  caso,  anche  se  effettuate
illegittimamente, non rendono illegittimo l'eventuale sequestro dello
stupefacente  e  delle  altre  cose  pertinenti  al  reato  rinvenute
all'esito  della  perquisizione»),  si  impedirebbe  ogni   controllo
giurisdizionale sulla legittimita'  dell'agire  della  p.g.  e  sulla
attendibilita' dei risultati della sua azione; si  vanificherebbe  la
previsione  di  inefficacia  contenuta   nell'art.   13   Cost.;   si
contravverrebbe di fatto al regime dell'utilizzabilita'  delle  prove
(che pacificamente riguarda anche  gli  indizi)  per  come  stabilito
dalla legge (nella specie, l'art. 191 del codice di procedura  penale
per quel che riguarda il divieto di utilizzazione di prove  acquisite
in violazione di un divieto posto  dalla  legge);  si  vanificherebbe
quindi (incentivandone le violazioni per  l'inesistenza  di  sanzioni
processuali all'utilizzabilita' degli esiti delle  perquisizioni)  la
tutela  costituzionale  della  inviolabilita'   del   domicilio;   si
realizzerebbe,  infine,  una  potenziale   lesione   della   liberta'
personale, atteso che questa verrebbe ad  essere  giurisdizionalmente
limitata  per  effetto  di  una  apparenza  di  flagranza  di   reato
conseguente (e non preesistente) alla perquisizione,  senza  che  sia
possibile verificare la affidabilita' della catena indiziaria che  ha
portato all'emersione di quella situazione di  apparenza  probatoria,
la cui genuinita' dovra' quindi essere assunta per atto di fede. 
    Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto  conseguente,  che,  a
fondamento della ricorrenza di un indizio di detenzione delle armi  o
sostanze stupefacenti: 
        a)  non   possano   essere   utilizzate   fonti   anonime   o
confidenziali, perche' queste non sono in alcun modo verificabili dal
giudice, che verrebbe cosi'  privato  di  ogni  effettivo  potere  di
controllo circa  la  legittimita'  dell'azione  della  p.g.  e  circa
l'affidabilita' della catena indiziaria che porta alla  perquisizione
ed all'acquisizione dei risultati di essa; si deve  sottolineare  che
cio' realizzerebbe una ingiustificata disparita' di trattamento,  con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione,  tra  indagato
perquisito ed altri indagati,  rispetto  all'ordinario  regime  della
prova, posto che fonti confidenziali e  fonti  anonime  sono  in  via
generale inutilizzabili (cfr. articoli 273, 195 comma 7, 203 comma  1
del codice  di  procedura  penale,  che  in  via  generale  prevedono
l'inutilizzabilita' delle deposizioni de relato fondate su fonti  che
non si intenda o non si possa indicare, risolvendosi queste in  fonti
anonime non utilizzabili come gia' previsto dall'art. 240 del  codice
di procedura penale per il divieto  di  utilizzazione  dei  documenti
anonimi) e non sussumibili  nella  nozione  di  indizio,  che  indica
l'elemento di prova non  univocamente  concludente  ma  utilizzabile,
posto che per giurisprudenza pacifica ed assolutamente condivisibile,
l'art. 191 del codice di  procedura  penale  si  applica  anche  agli
indizi; 
        b)  l'A.G.  dovra'  poter  conseguentemente   verificare   se
l'elemento posto a fondamento della «notizia» circa l'esistenza delle
armi o delle sostanze stupefacenti nei locali  da  perquisire,  abbia
dignita' di indizio utilizzabile; in caso contrario  si  avrebbe  una
violazione degli articoli 111 e  117  Costituzione  (con  riferimento
all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo)  essendo  solo  apparente  la   possibilita'   di   godere
dell'esame di un giudice imparziale ed indipendente,  laddove  questo
giudice non abbia un adeguato potere di  verifica  delle  circostanze
costituenti elementi a carico dell'imputato. 
    Pertanto, in via del tutto conseguente, va altresi' ritenuto che,
a  fondamento  della  ricorrenza  di  un  indizio  di  detenzione  di
stupefacenti  o  armi,  ai  sensi  degli  articoli  103 decreto   del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 41 TULPS: 
        c)  non   possano   essere   utilizzate   fonti   anonime   o
confidenziali, perche' queste sono in via generale  inutilizzabili  e
non sussumibili nella nozione di indizio, che  indica  l'elemento  di
prova  non  univocamente  concludente,  ma  senz'altro   utilizzabile
perche' non vietato dalla legge; 
        d)  l'AG  dovra'   poter   conseguentemente   verificare   se
l'elemento posto a fondamento  della  «notizia»  o  del  «ragionevole
motivo di ritenere» circa  l'esistenza  delle  armi  o  stupefacenti,
sulla persona o nei locali da perquisire, abbia dignita'  di  indizio
utilizzabile. 
    E' bene sottolineare che questo giudice ha sottolineato i profili
di possibile incostituzionalita' di interpretazioni che ammettano,  a
presupposto  degli  atti   di   perquisizione,   elementi   probatori
particolarmente  deboli  o  inutilizzabili,  al  solo  fine  di   far
risaltare l'importanza da riconoscersi  alla  tutela  della  liberta'
personale e dell'inviolabilita' del domicilio  e  come  tali  materie
siano uno dei punti qualificanti dell'effettivita' di  uno  Stato  di
diritto,  come  disegnato  dalla  Costituzione  e  dalla  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, in cui il riconoscimento di diritti fondamentali  della
persona  e'  necessariamente  accompagnato  dalla  previsione  di  un
giudice non solo imparziale ed indipendente, ma  anche  dotato  degli
strumenti di verifica e controllo  atti  ad  assicurarne  l'effettiva
tutela; peraltro, in uno Stato di diritto, lo Stato ed i suoi  organi
sono  per  primi  vincolati  al  rispetto  delle  leggi  di  cui  pur
pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e cio' comporta  non
solo l'impegno a  non  violare  tali  leggi,  ma  anche  a  garantire
l'effettivo  rispetto  del  diritti  che  tali  leggi  prevedono   ed
attribuiscono. 
    La giurisprudenza della Cassazione non e' univocamente  attestata
su posizioni come quella espressa dalla gia' menzionata C. cassazione
sez. 3, sentenza n. 19365 del 17 febbraio 2016,  essendo  rinvenibili
nella giurisprudenza di' legittimita' anche  ben  piu'  condivisibili
pronunzie, quali ad es: 
        sez. 6, sentenza n. 40952 del 15 giugno 2017, che ha statuito
che «E' configurabile l'esimente della reazione ad atti arbitrari del
pubblico ufficiale  qualora  il  privato  opponga  resistenza  ad  un
pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il  suo  domicilio
una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art. 4, legge  22  marzo
1975, n. 152, alla ricerca  di  armi  e  munizioni  fondata  su  meri
sospetti e  non  su  dati  oggettivi  certi,  anche  solo  a  livello
indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel  luogo  in  cui
viene eseguito l'atto. (Fattispecie  in  cui  la  Corte  ha  ritenuto
immune da  vizi  la  mancata  convalida  dell'arresto  per  il  reato
previsto dall'art. 337 del codice  penale  all'imputato  per  essersi
opposto alla perquisizione disposta  dopo  la  contestazione  di  una
contravvenzione al codice stradale, senza che fossero  emersi  indizi
significativi circa  il  possesso  di  armi  o  di  oggetti  atti  ad
offendere); 
        sez. 6, sentenza n. 34450 del 22 aprile 2016, che ha statuito
che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere  a
perquisizioni, sequestri e intercettazioni  telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'.  Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce  anonime
possono stimolare l'attivita' di iniziativa del pubblico  ministero e
della polizia giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati  conoscitivi,
diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi  utili
per l'individuazione di una «notitia criminis». (In  applicazione  di
tale  principio,  la  Corte  ha  ritenuto  legittimi  l'attivita'  di
perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare e di materiale
informatico eseguiti a seguito di un'attivita' investigativa, avviata
sulla base di una denuncia anonima, nel corso della quale era  emersa
la pubblicazione in rete di numerosi post  a  contenuto  diffamatorio
pubblicati mediante l'account creato sul social  network  facebook  a
nome dell'imputato, indagato  in  relazione  ai  reati  di  cui  agli
articoli 278, 291 e 214 del codice penale); 
        sez. 6, sentenza n. 36003  del  21  settembre  2006,  che  ha
statuito che «Sulla base di una denuncia  anonima  non  e'  possibile
procedere a perquisizioni, sequestri e  intercettazioni  telefoniche,
trattandosi di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di
indizi di reita'. Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce
anonime possono  stimolare  l'attivita'  di  iniziativa  del pubblico
ministero e della  polizia  giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati
conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo  possano  ricavarsi
estremi utili per l'individuazione di  una  «notitia  criminis».  (In
applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che  la  polizia
giudiziaria aveva  legittimamente  proceduto  alla  perquisizione  di
un'autovettura e al conseguente sequestro di  sostanza  stupefacente,
dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul
posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato); 
        sez. 5, ordinanza  n.  37941  del  13  maggio  2004,  che  ha
statuito che: «Il decreto  di  perquisizione  e  sequestro  emesso  a
seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione
di una «notitia criminis» e non come mezzo di ricerca della prova, e'
nullo. Infatti la  denuncia  confidenziale  o  anonima,  che  non  e'
inseribile  agli  atti  e  non  e'  utilizzabile,  non  puo'   essere
qualificata come una notizia di  reato  idonea  a  dare  inizio  alle
indagini  preliminari,  cosicche'  l'accusa  non  puo'  procedere   a
perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'. 
    Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della Suprema  Corte,
che a parere di questo giudicante rispondono pienamente  al  principi
costituzionali  e  convenzionali  nella  individuazione  del  minimum
probatorio necessario  a  rendere  legittima  una  perquisizione;  di
talche' non puo' ritenersi la ricorrenza di un  diritto  vivente  che
imponga di denunziare l'illegittimita' costituzionale  delle  opposte
interpretazioni,   pur   non   assenti   nella   giurisprudenza    di
legittimita'. 
    Cio' che invece appare deficitario sotto il profilo dei  principi
costituzionali, nella giurisprudenza di legittimita', e'  il  rilievo
da assegnarsi all'illiceita' della  perquisizione,  sul  piano  della
valenza probatoria dei suoi esiti: valenza probatoria che comunemente
si ritiene permanga intatta, anche  nel  caso  di  una  perquisizione
eseguita in assenza di ogni presupposto di legittimita'. 
    Riprendendo  le  fila  del  discorso,  poiche'   all'atto   della
perquisizione cui venne  sottoposto  l'imputato  non  risultava  gia'
evincibile  una  situazione  di  flagranza,  ne'   nel   verbale   di
perquisizione e' specificato in cosa - a parte l'inutilizzabile fonte
confidenziale - consistessero gli elementi atti a definire l'imputato
come soggetto dedito allo spaccio, o comunque atti a  significare  la
presenza  di  sostanze   stupefacenti,   destinate   alla   cessione,
nell'abitazione  dell'imputato,  quella  compiuta   dalla   p.g.   si
manifesta  come  una  perquisizione   domiciliare   abusiva   perche'
assolutamente ingiustificata - in base al giudizio ex ante  che  deve
presiedere ad ogni valutazione  circa  la  legittimita'  dell'operato
della p.g. in tutti gli atti che interferiscono  con  l'esercizio  di
liberta' costituzionalmente tutelate - e compiuta al di fuori di  una
situazione di flagranza. 
    Tali attivita' di perquisizione ed ispezione, inoltre, sono state
convalidate dal pubblico ministero con un provvedimento assolutamente
immotivato, stante l'assoluta apoditticita' della formula  utilizzata
(«ritenuto che la perquisizione ed il  sequestro  sono  avvenuti  nei
casi e  nei  termini  consentiti  dalla  legge»),  che  pertanto  non
permette di rilevare (e valutare) in base a quali ragioni il pubblico
ministero abbia ritenuto  legittimamente  esercitato  il  potere  che
l'art. 13 Costituzione vuole limitato ai casi tassativamente previsti
dalla legge e del tutto eccezionale e,  in  quanto  limitativo  della
liberta' personale (come gia' si e'  notato  l'art.  13  Costituzione
assegna tale natura agli atti di ispezione e perquisizione personali)
sottoposto a convalida dell'AG, sotto espressa  pena  di  inefficacia
assoluta degli effetti dell'atto illegittimo (cfr. art. 13,  comma  3
Costituzione). 
    Non ricorrendo le ipotesi della  flagranza  o  le  altre  ipotesi
previste da leggi speciali che  a  tanto  facultizzino  le  forze  di
polizia, deve ritenersi che gli atti di  perquisizione,  ispezione  e
sequestro da queste eseguiti siano stati compiuti in violazione di un
divieto, derivante dalla generale riserva  di  tali  atti  alla  sola
Autorita' giudiziaria; la conseguenza,  in  base  a  quanto  previsto
dall'art. 191  del  codice  di  procedura  penale,  che  sancisce  la
inutilizzabilita' delle prove vietate dalla  legge,  dovrebbe  quindi
essere la inutilizzabilita' degli esiti di detta perquisizione; ma la
giurisprudenza della Suprema Corte, come meglio oltre  si  dira',  e'
assolutamente   di   segno   contrario,   nonostante   la    sanzione
dell'inutilizzabilita' sembri emergere gia' direttamente a livello di
previsione costituzionale. 
    Come si e' detto, gli articoli 13 e 14 Costituzione (che  infatti
richiama le garanzie dell'art. 13  Costituzione)  prevedono  che  «in
casi eccezionali di necessita' ed  urgenza,  indicati  tassativamente
dalla  legge,  l'autorita'  di  pubblica  sicurezza   puo'   adottare
provvedimenti  provvisori,  che  devono   essere   comunicati   entro
quarantotto  ore  all'Autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono  revocati  e
restano privi di ogni efficacia»; cio' comporta, a parere  di  questo
giudice,  che  gli  atti  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro
abusivamente compiuti dalla  p.g.  o  non  motivatamente  convalidati
dall'A.G. rimangano senza effetto  anche  sul  piano  probatorio;  la
legge  ordinaria  ha   quindi   dato   attuazione   alla   previsione
costituzionale, prevedendo casi tassativi per l'esercizio dei  poteri
di arresto, fermo, perquisizione,  ispezione  e  sequestro  da  parte
delle Forze di polizia, ed ha introdotto in via generale, con  l'art.
191  del  codice   di   procedura   penale,   la   previsione   della
inutilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di  un  divieto
di legge; come pero' si vedra', il diritto vivente quale  discendente
dalla  monolitica  interpretazione   delle   norme   di   legge   (in
particolare, proprio dell'art. 191 del codice  di  procedura  penale)
dettate a sanzione  di  inutilizzabilita'  dell'assunzione  di  prove
vietate dalla legge, non  assegna  conseguenze  di  inutilizzabilita'
agli esiti delle perquisizioni ed ispezioni compiute dalle  forze  di
polizia fuori dei casi  in  cui  la  legge  glielo  consente;  con il
prevedere l'utilizzabilita' probatoria del corpo  di  reato  e  delle
cose pertinenti al reato acquisite grazie  a  tali  perquisizioni  ed
ispezioni,  anche  se  avvenute  in  violazione  di  un  divieto,  la
giurisprudenza della Suprema Corte (vero e proprio  diritto  vivente,
stante la sua monoliticita'), a parere di questo giudice, vanifica le
garanzie costituzionali, dando luogo ad un  diritto  vivente  che  si
pone in contrasto con esse, come meglio oltre si dira'. 
    A prescindersi poi dalla gia' chiara lettera dell'art. 13,  comma
3 Costituzione, gia' le ordinarie disposizioni processuali dovrebbero
condurre al risultato interpretativo  della  inutilizzabilita'  degli
esiti della perquisizione illegittima, in presenza di una norma, come
l'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,  che  sanziona   con
l'inutilizzabilita' le prove acquisite in violazione di un divieto di
legge. 
    Nel  caso  in  oggetto  non  rileva   la   questione   circa   la
inadeguatezza costituzionale della norma,  nella parte in cui prevede
la   idoneita'   della   autorizzazione   telefonica   orale    senza
espressamente  prevedere  la  necessita' di  una  sua  documentazione
successiva con  motivazione  che  soddisfi  i  requisiti   di   forma
richiesti dall'art. 13 Costituzione; ed invero, nel caso  in  oggetto
e' presente una convalida  scritta,  apposta  in  calce  al  p.v.  di
perquisizione,  che  si  risolve  unicamente  e  semplicemente  nella
formula «si convalida» seguita da  data  e  firma  e  priva  di  ogni
motivazione. 
    Compiuta   tale    preliminare    ricognizione    delle    norme,
costituzionali e di legge  ordinaria,  che  disciplinano  la  materia
delle perquisizioni personali e domiciliari,  deve  quindi  ribadirsi
che le prove a carico dell'imputato consistono  di  quanto  rinvenuto
nella sua abitazione a seguito di una perquisizione domiciliare al di
fuori dei casi e modi previsti dalla legge, atteso che ne'  ricorreva
una percepibile situazione di flagranza del  reato,  ne',  come  gia'
detto, risulta ricorressero i presupposti di cui all'art. 103 decreto
del Presidente della Repubblica n. 309/1990. 
    Invero, se quanto operato dalla p.g. a limitazione della liberta'
personale (e di quella domiciliare, per effetto  dell'estensione  che
ad essa opera l'art. 14 Costituzione delle garanzie previste  per  la
persona) e' sottoposto, per previsione costituzionale, a  verifica  e
controllo da parte dell'Autorita' giudiziaria, che  per  convalidarne
l'operato  deve  emettere  provvedimento   motivato,   cio'   implica
necessariamente che la p.g. debba dare atto degli specifici  elementi
valutati e che l'hanno indotta a  ravvisare  un  «fondato  motivo  di
ritenere  che  possano  essere  rinvenute  sostanze  stupefacenti   o
psicotrope»;  qualsiasi  diversa  interpretazione  che   legittimasse
l'operato della p.g. sulla base di elementi da essa indicati  in  via
del tutto  generica  ed  astratta,  si'  da  impedirne  una  concreta
valutazione, sarebbe necessariamente da ritenersi incostituzionale. 
    Cio' detto, in forza di quanto previsto dagli articoli  13  e  14
Costituzione,  quanto  illegittimamente  operato  dalla   p.g.   cio'
dovrebbe condurre all'inutilizzabilita' probatoria degli esiti  della
perquisizione  e  del  sequestro,  in  quanto,   essendo   stata   la
perquisizione eseguita fuori dei casi e modi tassativamente  previsti
dalla legge e non convalidata con provvedimento  motivato  dell'A.G.,
detti  atti,  in  forza  di  quanto  previsto  dalle  suddette  norme
costituzionali, «si  intendono  revocati  e  restano  privi  di  ogni
efficacia»: con linguaggio la  cui  chiarezza  non  e'  stata  finora
adeguatamente apprezzata, il legislatore costituzionale  aveva  cioe'
chiaramente introdotto la sanzione dell'inutilizzabilita' degli esiti
degli atti di p.g. illegittimamente invadenti la sfera della liberta'
personale. 
    Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia»
e' dalla norma costituzionale assegnata  non  solo  alla  illegittima
esecuzione di  atti  di  arresto  o  di  fermo,  ma  genericamente  e
complessivamente  al  caso  dell'adozione  dei   «provvedimenti»   di
polizia, in materia di liberta' personale, fuori  dei  casi  previsti
dalla legge; e -  a  meno  di  voler  affermare  che  il  legislatore
costituzionale abbia impiegato con imprecisione e  scarsa  padronanza
la lingua italiana - i provvedimenti in  questione  non  possono  non
essere che tutti quelli contemplati  dalla  norma  stessa,  e  quindi
anche le ispezioni  e  le  perquisizioni  personali,  che  l'art.  13
Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la
liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione  che
voglia  limitare  la  previsione  costituzionale  della  «perdita  di
efficacia»  ai  soli   provvedimenti   soppressivi   della   liberta'
personale,  quali  l'arresto  ed  il  fermo,  atteso  che  l'art.  13
Costituzione utilizza una formula omnicomprensiva  (i  «provvedimenti
provvisori» adottabili dalla p.g.) che a  tutti  i  provvedimenti  da
detta norma contemplati  risulta  riferirsi,  come  evincibile  anche
dalla   disciplina   adottata   dall'art.   14   Costituzione,    che
espressamente li richiama «nominatim»  («ispezioni,  perquisizioni  o
sequestri») prevedendone l'adottabilita' da parte della p.g. «secondo
le garanzie prescritte per la tutela della liberta' personale». 
    Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel
tempo (e  di  cui  la  norma  costituzionale  si  e'  preoccupata  di
prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto  ad  atti  di
perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti  e  terminati
nella loro esecuzione  (come  e'  necessariamente,  dato  che  ne  e'
prevista la convalida entro novantasei  ore  al  massimo  dalla  loro
esecuzione),  e'  solo  quella  che  attiene  alla   loro   capacita'
probatoria; la sanzione di perdita dell'efficacia equivale  quindi  a
quella,  nel  linguaggio  del  codice  di   procedura   repubblicano,
quarant'anni     dopo     l'approvazione     della      Costituzione,
dell'inutilizzabilita'  introdotta  dall'art.  191  del   codice   di
procedura penale per le prove assunte in violazione di un divieto  di
legge. 
    E' bene  precisare  che  l'art.  13  Costituzione  riconnette  la
conseguenza delle perdita di efficacia degli atti  di  polizia,  alla
circostanza che essi non vengano convalidati dall'A.G. in un  termine
dato; ma la  ratio  della  norma  costituzionale  sarebbe  senz'altro
frustrata se la  convalida  si  risolvesse  in  una  pura  forma  non
esprimente un effettivo controllo circa  la  legalita'  dell'atto  di
p.g.; di qui la prescrizione (a parere di questo  giudice  evincibile
dal comma 2 dell'art. 13 Costituzione, come si e' gia' osservato) che
l'atto di convalida debba essere motivato, poiche'  e'  solo  con  un
atto avente tali caratteristiche che l'art. 13 Costituzione  consente
che l'A.G. incida sulla  liberta'  personale:  e  non  avrebbe  senso
prevedere la necessita' dell'atto motivato allorche' l'A.G., titolare
in via ordinaria di tale potere, proceda di  sua  iniziativa,  e  non
gia' allorche' debba verificare che la p.g. non abbia esorbitato  dai
(od addirittura abusato dei) casi del tutto  eccezionali  in  cui  la
legge le concede di intervenire in materia di liberta' personale. 
    E'  quindi  ovvio  che,  nel  sistema  delineato   dall'art.   13
Costituzione,  la  convalida  operi  in  quanto  espressione  di   un
effettivo potere di verifica in ordine alla concreta  ricorrenza  dei
presupposti legali di esecuzione della perquisizione  personale  (non
e' un caso, ad es., che lo stesso art.  103  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309/1990 prevede, come  peraltro  e'  ovvio,  che
l'AG convalidera' la perquisizione «ove ne ricorrano i presupposti»),
e  non  sia  sufficiente   un   mero   provvedimento   di   convalida
assolutamente immotivato e non riconducibile  ad  una  situazione  di
concreta   ravvisabilita'   della    situazione    legittimante    la
perquisizione personale: situazione che, nel vigente sistema, e' data
fondamentalmente dalla ricorrenza della flagranza del reato  o  dalla
ricorrenza di fondate ragioni che inducano  a  ritenere  che  sia  in
corso l'esecuzione di un delitto in materia di  stupefacenti  o  armi
(con riferimento alle due  norme  -  gli  articoli  103  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 41 TULPS - legittimanti  la
perquisizione fuori dei casi  di  flagranza,  di  maggiore  rilevanza
statistica). 
    Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di  legge
ordinaria,  impongono  che   la   polizia   giudiziaria   proceda   a
perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla  legge,  e
che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte
dell'Autorita' giudiziaria. 
    Infatti, a proposito della necessita' di una valutazione concreta
e condivisibile da parte dell'A.G., circa la  ricorrenza  di  ragioni
adeguatamente   giustificatrici   dell'esercizio   del   potere    di
perquisizione, va anche richiamata, per l'assoluta  importanza  della
fonte, che assegna alla decisione rilievo costituzionale ex art.  117
Costituzione, la sentenza l6 marzo 2017, Modestou c. Grecia,  con  la
quale la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  (d'ora  in  poi  per
brevita' CEDU) ha ritenuto essersi verificata violazione dell'art.  8
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali,  in  un  caso  in  cui  era  stata   eseguita
perquisizione presso  il  domicilio  personale  e  professionale  del
ricorrente senza alcun controllo  giurisdizionale  ex  ante  e  sulla
scorta di  un  mandato  di  perquisizione  generico;  ne'  era  stato
previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post,  considerato
che la Corte d'appello,  adita  dal  ricorrente,  aveva  respinto  la
doglianza non  solo  piu'  di  due  anni  dopo  la  perquisizione  in
questione,  ma  nemmeno  indicando  neppure  i  motivi  «rilevanti  e
sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale
si trae quindi conferma che  l'AG  debba  operare  una  illustrazione
motivata (e condivisibile) delle ragioni della perquisizione, al fine
di rendere verificabile la legittimita' dell'esercizio  del  relativo
potere; statuizione che, se vale  per  le  perquisizioni  autorizzate
dall'AG.,  deve  a  maggior  ragione  valere   per   quelle   operate
direttamente dalla P.G. e successivamente convalidate dalla A.G.. 
    Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato  che
l'art.  13  Costituzione  ricollega   la   salvezza   degli   effetti
dell'operato della p.g., ne consegue che, sebbene le  nullita'  degli
atti per difetto di  motivazione  siano  generalmente  rilevabili  ad
eccezione di parte, in questo caso  debba  invece  ritenersi  che  la
ricorrenza di un atto di convalida adeguatamente motivato, nella  sua
funzione costituzionale di salvezza degli effetti dell'atto di  p.g.,
sia un elemento della fattispecie «sanante» la cui  ricorrenza  debba
essere verificata d'ufficio; cosi' come  dovra'  verificarsi  che,  a
prescindere da quanto eventualmente affermato  col  provvedimento  di
convalida (si pensi ad es. al caso di una motivazione non aderente ai
dati  fattuali  emergenti  dagli  atti;  o  che  da   questi   tragga
conclusioni assolutamente illogiche o non giustificate), ricorressero
effettivamente i presupposti perche' la  p.  g.  esercitasse  i  suoi
poteri previsti in via del tutto  eccezionale  (sul  punto,  relativo
alla portata dell'art. 191 del codice di procedura penale,  si  dira'
meglio oltre). 
    Tanto  premesso,  va  peraltro  preso   atto   che   tali   esiti
epistemologici  sono  estranei  alla  interpretazione  accolta  dalla
giurisprudenza   assolutamente   dominante   che,    a    far    data
dall'insegnamento  espresso  dalle  sezioni  unite  della  Corte   di
cassazione con la sentenza 5021 del 27 marzo  1996,  ha  ritenuto  la
piena utilizzabilita' probatoria degli esiti  delle  perquisizioni  e
sequestri eseguiti dalla p.g. al di fuori  dei  casi  previsti  dalla
legge, pur prendendo le mosse da statuizioni di  principio  di  segno
apparentemente opposto alle conclusioni finali. 
    In realta', con la suddetta  sentenza,  le  sezioni  unite  della
Suprema Corte di cassazione hanno in primo luogo affermato  a  chiare
lettere che la conseguenza di un'attivita' di  illecita  acquisizione
della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non  puo'
limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o  penali  nei
confronti   dell'autore    dell'illecito,    ma    deve    comportare
l'inutilizzabilita'  della  prova  stessa,  statuendo  che:  «non  e'
certamente difficile riconoscere che  allorquando  una  perquisizione
sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non  nei
«casi» e nei  «modi»  stabiliti  dalla  legge,  cosi'  come  disposto
dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza  di  un  mezzo  di
ricerca della prova che non e' piu' compatibile  con  la  tutela  del
diritto di  liberta'  del  cittadino,  estrinsecabile  attraverso  il
riconoscimento dell'inviolabilita'  del  domicilio.  L'illegittimita'
della ricerca di una prova,  pur  quando  non  assuma  le  dimensioni
dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 del codice  penale),  non  puo'
esaurirsi nella mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione  del
diritto soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione  di
sanzioni amministrative o penali per colui o per coloro che  ne  sono
stati gli autori. La  perquisizione,  oltre  ad  essere  un  atto  di
investigazione diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di una
prova  preesistente  e,  quindi,  diviene  partecipe  del   complesso
procedimento  acquisitivo  della  prova,   a   causa   del   rapporto
strumentale che si pone tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo'
essere necessario o utile ai  fini  della  indagine:  nessuna  prova,
diversa da  quelle  che  possono  formarsi  soltanto  nel  corso  del
procedimento, potrebbe  essere  acquisita  al  processo  se  una  sua
ricerca non sia  stata  compiuta  e  questa  non  abbia  avuto  esito
positivo. 
    Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca  di  una
prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per
se'  stessa  sottratta  alla   materiale   possibilita'   di   essere
suscettibile di una diretta utilizzazione  nel  processo  penale,  e'
altrettanto vero che il rapporto funzionale che  avvince  la  ricerca
alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. 
    Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non  e'
esauribile  nell'area  riduttiva  di   una   mera   consequenzialita'
cronologica, come si era affermato in  numerose  pronunce  di  questa
Corte prima dell'entrata in vigore  del  nuovo  codice  di  procedura
penale, e com'e' stato, anche in  epoca  successiva,  qualche  volta,
ribadito (cfr.sez.1 -17 febbraio  1976  ric.  Cavicchia;  sez.VI  23.
1.1973  ric.  Ferraro;  sez.V-  24  novembre  1977  ric.  Manussardi;
sez.1-15 marzo 1984 ric. Zoccoli; sez.VI 24 aprile 1991  ric.  Lione;
sez. V-12 gennaio 1994 ric. Vetralla,etc): la  perquisizione  non  e'
soltanto l'antecedente cronologico del sequestro, ma  rappresenta  lo
strumento giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro.» 
    Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero  che  esista
una distinzione concettuale tra  la  perquisizione,  quale  mezzo  di
ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di  acquisizione
della  prova,  cio'  non  ha   alcuna   rilevanza   ai   fini   della
inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione
illegittima, atteso che: 
        «la  stessa  utilizzabilita'  della  prova  e'   pur   sempre
subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento  acquisitivo
che si sottragga, in ogni  sua  fase,  a  quei  vizi  che,  incidendo
negativamente sull'esercizio di  diritti  soggettivi  irrinunciabili,
non  possono  non  diffondere  i  loro  effetti  sul  risultato  che,
attraverso quel procedimento, sia stato conseguito.  Del  resto,  non
puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso  ordinamento  processuale  ad
aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra  perquisizione
e sequestro: l'art. 252 del codice  di  procedura  penale  impone  il
sequestro delle «cose rinvenute  a  seguito  della  perquisizione»  e
l'art. 103 comma VII°  dello  stesso  codice  espressamente  sancisce
l'inutilizzabilita' dei  risultati  delle  perquisizioni  allorquando
queste sono state eseguite in violazione delle  particolari  garanzie
di cui debbono fruire i difensori per poter  esercitare  congruamente
il diritto di difesa. E non si vede  perche'  a  diverse  ed  opposte
conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una  perquisizione  sia  stata
comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative
che assicurano,  in  concreto,  l'attuazione  di  quella  ineludibile
garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta
dall'art. 13, comma 2° della Costituzione: si tratta pur sempre di un
procedimento acquisitivo della prova che reca l'impronta  ineludibile
della subita lesione ad un diritto soggettivo, diritto  che,  per  la
sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la  piu'  radicale
sanzione  di  cui  l'ordinamento   processuale   dispone,   e   cioe'
l'inutilizzabilita' della prova cosi'  acquisita  in  ogni  fase  del
procedimento.» 
    Il prosieguo della statuizione della Suprema Corte  si  risolveva
peraltro nella vanificazione della portata pratica di  tali  principi
appena  enunciati;  continuava  infatti  detta  sentenza   affermando
comunque valido il sequestro, perche' atto dovuto,  allorche'  avesse
ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato;  di  fatto,
l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini  probatori,
sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi
comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo  ne'  al  corpo
del reato, ne' a cose  pertinenti  al  reato;  affermava  infatti  la
Suprema Corte a SSUU: 
    «Orbene, se e' vero  che  l'illegittimita'  della  ricerca  della
prova  del  commesso  reato,   allorquando   assume   le   dimensioni
conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a  tutela  dei
diritti  soggettivi  oggetto  di  specifica  tutela  da  parte  della
Costituzione, non puo', in linea  generale,  non  diffondere  i  suoi
effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di
acquisire,  e'  altrettanto  vero  che  allorquando  quella  ricerca,
comunque effettuata, si  sia  conclusa  con  il  rinvenimento  ed  il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo
stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il
modo con il quale a  quel  sequestro  si  sia  pervenuti:  in  questa
specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto  di  una  situazione  non
legittimamente creata, il sequestro rappresenta un «atto dovuto»,  la
cui omissione esporrebbe  gli  autori  a  specifiche  responsabilita'
penali,  quali  che  siano   state,   in   concreto,   le   modalita'
propedeutiche e funzionali  che  hanno  consentito  l'esito  positivo
della ricerca compiuta. 
    Con cio' non si  intende  affatto  affermare  che  l'oggetto  del
sequestro, a causa della sua intrinseca  illiceita',  ovvero  per  il
rapporto strumentale che esso puo' esprimere in  relazione  al  reato
commesso,  possa,  per  cio'  solo,  dissolvere  quella   connessione
funzionale   che   lega   la   perquisizione   alla    scoperta    ed
all'acquisizione di  cio'  che  si  cercava,  ma  si  vuole  soltanto
precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste  dall'art.
253, comma 1° del codice di procedura penale, gli aspetti strumentali
della ricerca, pur rimanendo partecipi del  procedimento  acquisitivo
della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un  obbligo
giuridico che trova la  sua  fonte  di  legittimazione  nello  stesso
ordinamento  processuale  ed  ha  una  sua  razionale  ed   appagante
giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia  giudiziaria
non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente  legati
al suo "status", qualunque sia la situazione - legittima o  no  -  in
cui egli si trovi ad operare». 
    Concludevano quindi le SS.UU. osservando che gli agenti  di  p.g.
avrebbero poi potuto testimoniare sugli  esiti  della  perquisizione,
ferma restano l'inutilizzabilita' di essa in quanti  tale  (e  cioe',
par di capire, del verbale che ne documenta modalita', tempo,  luoghi
e risultato). 
    Da tale arresto delle sezioni unite ha tratto origine e  sviluppo
una giurisprudenza che si e'  ancorata  unicamente  alle  statuizioni
circa  la  legittimita'  ed  utilizzabilita'  a  fini  probatori  del
sequestro, rimanendo apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei
principi affermati  dalle  stesse  SS.UU.  nella  prima  parte  della
propria statuizione,  e  che  probabilmente  avrebbero  meritato  una
riflessione e sviluppo ulteriori: come, ad es.,  quella  che  volesse
limitare l'utilizzabilita'  probatoria  del  sequestro  alla  res  in
quanto tale,  cioe'  nella  sua  materiale  idoneita'  a  provare  la
sussistenza del fatto (si pensi  al  rinvenimento  di  un'arma  o  di
sostanza  stupefacenti,  idonei  a  provare  i  reati  di  detenzione
illecita di tali oggetti) ed  a  fungere  da  eventuale  supporto  di
tracce di reato (impronte digitali, materiale biologico  suscettibile
di  comparazione  del  DNA)   aventi   carattere   individualizzante:
interpretazione, questa, sostenuta da questo  giudice  in  precedenti
procedimenti,  ma  non  condivisa  dai  giudici  competenti   per   i
successivi gradi, che si sono sempre rimessi alla giurisprudenza  che
si e' richiamata e che delle citate SS.UU. coglieva, sostanzialmente,
solo quanto risultante dal dispositivo e dalla massima. 
    Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' si
e'  monoliticamente   assestata   su   tali   esiti   interpretativi,
confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro  conseguente
ad una perquisizione illegittima,  e  la  sua  piena  utilizzabilita'
probatoria; si citano, ad es., ed in assenza di  pronunzie  di  segno
contrario, che lo scrivente magistrato non e' riuscito a rinvenire: 
        Sez. 3, ordinanza n. 3879  del  14  novembre  1997;  Sez.  1,
sentenza n. 2791 del 27 gennaio 1998, sez. 5, sentenza n. 6712 del  7
dicembre 1998, sez. 3, sentenza n. 1228 del 17 marzo  2000,  sez.  4,
sentenza n. 8052 del 2 giugno 2000, sez 6, sentenza  n.  3048  del  3
luglio 2000, sez. 2, sentenza n. 12393 del 10  agosto  2000,  sez  1,
sentenza n. 45487 del 28 settembre 2001, sez. 1,  sentenza  n.  41449
del 2 ottobre 2001, sez 1, sentenza n. 497 del 5 dicembre 2002,  sez.
5, sentenza n. 1276 del 17 dicembre 2002, sez. 2, sentenza  n.  26685
del 14 maggio 2003, sez. 2, sentenza n. 26683  del  14  maggio  2003,
sez. 1, sentenza n. 18438 del 28 aprile 2006,  sez.  2,  sentenza  n.
40833 del 10 ottobre 2007, sez. 6, sentenza n. 37800  del  23  giugno
2010, sez. 1, sentenza n. 42010 del 28 ottobre 2010, sez. 2, sentenza
n. 31225 del 25 giugno  2014,  sez.  3,  sentenza  n.  19365  del  17
febbraio 2016, sez. 2, sentenza n. 15784 del 23 dicembre 2016. 
    Alla luce di richiamati principi espressi dagli articoli 13 e  14
Costituzione, questo giudicante dubita che le norme vigenti, per come
interpretate dalla giurisprudenza assolutamente prevalente (e tale da
dar luogo ad un vero e proprio diritto vivente), siano rispettose del
dettato costituzionale, ed in particolare degli articoli 3, 13, 14  e
117  (con  riferimento  all'art.  8  della  Convenzione  EDU)   della
Costituzione, nella parte  in  cui  le  norme  di  diritto  ordinario
consentono  l'utilizzabilita'  processuale  -  mediante   deposizione
testimoniale di chi  abbia  operato  la  perquisizione  od  ispezione
illegittima, o la lettura od altra forma di utilizzazione del verbale
di quanto risultante dalla perquisizione  e  dal  sequestro  -  della
valenza probatoria degli esiti di una perquisizione o ispezione e  di
quanto eventualmente sequestrato in occasione dell'esecuzione di tali
atti, allorche' tali atti di ricerca della prova siano eseguiti dalla
p.g. fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria
le attribuiscono il relativo potere. 
    L'interpretazione   maggioritaria   circa   l'irrilevanza   della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti  si  risolverebbe  quindi,  del  tutto  paradossalmente,  nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
(e  sempre  che  la  Corte   costituzionale   ne   abbia   dichiarato
l'incostituzionalita') le leggi  incostituzionali,  ma  efficacissimi
gli atti di p.g. compiuti in violazione  dei  diritti  costituzionali
del cittadino. 
    Tale giurisprudenza, invero: 
        a) sembra operare una confusione di piani  tra  il  sequestro
inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di
fatto,  e  data  l'estensione  concettuale  della  nozione  di   cose
pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso  di
perquisizione illegittima - solo del sequestro  inutile:  il  che  e'
assolutamente inconferente rispetto alle  tematiche  e  problematiche
poste dall'art. 191 del codice di procedura penale; 
        b) non considera che  il  sequestro  non  e'  una  prova,  ma
il mezzo che serve ad assicurare al processo la res che  puo'  essere
fonte di prova; 
        c) non considera che la valenza probatoria di una determinata
res e' generalmente data non dalla sola cosa in se'  (la  quale  puo'
generalmente provare la sussistenza del fatto ma non  necessariamente
chi lo abbia commesso, se  non  nel  caso  in  cui  sulla  res  siano
rinvenibili tracce biologiche, papillari o di  altro  genere  che  ne
permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma  anche
dalle circostanze del suo rinvenimento, specie  allorche'  si  tratti
appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso  (svelato  dalla
perquisizione) ad essere  indizio  grave  di  commissione  del  reato
stesso; 
        d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva  non
e'  tanto  la  legittimita'  del  sequestro,  quanto   quella   della
perquisizione tramite la quale  si  e'  rinvenuta  la  res  (con  suo
successivo  sequestro),  atteso   che   e'   la   perquisizione   che
generalmente  comprova  quella  relazione  personale  tra   la   cosa
indiziante di delitto e l'autore dello stesso; 
        e) non avverte che la ratio della norma di cui  all'art.  191
del codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle
prove acquisite in violazione di un divieto di legge,  e'  quella  di
offrire un valido presidio ai diritti  costituzionalmente  garantiti,
disincentivandone le violazioni  finalizzate  all'acquisizione  della
prova, rendendone inutilizzabili gli esiti probatori (si veda ad  es.
la   disciplina   della   inutilizzabilita'   delle   intercettazioni
illegittime ex art. 271 del codice  di  procedura  penale;  si  pensi
all'inutilizzabilita' ex art. 188 del codice di procedura  penale  di
una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che
possano influire sulle capacita' di autodeterminazione della  persona
dichiarante; si considerino  le  conseguenze  di  un'acquisizione  di
tabulati del traffico telefonico eseguita dalla p.g.  in  assenza  di
provvedimento motivato dell'A.G.); 
        f) non assegna  adeguato  valore  alla  circostanza  che  una
perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne  ha  il
potere, e' un  caso  tipico  di  prova  vietata  dalla  legge  ed  in
violazione di diritti costituzionali della persona (cfr. articoli  13
e  14  Costituzione;  art.   8   CEDU),   e   la   conseguenza   deve
necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati  (come
previsto dall'art. 13, comma 3, Costituzione), conformemente a quella
che e' la ratio dell'art. 191 del codice  di  procedura  penale  che,
inibendo l'utilizzabilita' degli esiti delle  prove  vietate  perche'
assunte in violazione  di  diritti  costituzionali,  intende  appunto
scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali; 
        g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la
possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata  agli  esiti
della perquisizione, equivale a negare la tutela  del  cittadino  dai
possibili abusi della p.g.: tutela  assicurata  in  via  generale  ed
astratta dagli  articoli  13  e  14  Costituzione,  ma  che  verrebbe
vanificata dall'incentivazione agli abusi per mancanza di conseguenze
processuali relative alla inutilizzabilita' del loro risultati; ed  i
drammatici fatti di Genova e di Bolzaneto  appaiono  esserne  storica
conferma e dimostrazione. 
    Quella discendente dalla citata sentenza delle SS.UU. n. 5021 del
27 marzo 1996 appare quindi essere  un'interpretazione  dalla  scarsa
tenuta logica di una simile interpretazione, idonea a fungere da vera
e propria  mina  di  irrazionalita',  che  si  presta  ad  introdurre
trattamenti  irrispettosi  del   principio   di   eguaglianza   delle
situazioni processuali equiparabili: si pensi  alla  gia'  richiamata
giurisprudenza che riconosce la non utilizzabilita'  di  altre  prove
vietate, quali gli anonimi e le fonti confidenziali, nemmeno ai  fini
della legittimazione di una perquisizione. 
    Tali considerazioni devono invece condurre  a  ritenere  che  una
perquisizione eseguita in forza di elementi non utilizzabili, e senza
che ricorresse gia' una preesistente situazione di flagranza, sia non
solo illegittima, ma anche improduttiva di elementi  utilizzabili  ai
fini della prova in danno dell'imputato, atteso che cio' non solo  e'
imposto dagli articoli 13 e 14 Costituzione, ma anche  da  una  piana
lettura dell'art. 191 del codice di procedura  penale rispettosa  dei
principi costituzionali, ma allo stato negata  dal  diritto  vivente,
che quindi si pone in contrasto con i principi costituzionali di  cui
agli articoli 13, 14 e 3 Costituzione. 
    Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere  di  questo
giudice, i presupposti  di  applicabilita'  della  conseguenza  della
inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191  del  codice  di
procedura penale, in base ad una piana lettura della  norma  ed  alla
ratio della stessa, come colta al punto f) che precede;  ed  infatti,
appare evidente  che  la  p.g.,  allorche'  proceda  ad  un  atto  di
perquisizione fuori dei casi a lei consentiti, compia un atto che  le
e' vietato - e non semplicemente un atto irrituale o nullo, come pure
talora si e' sostenuto in talune pronunzie della Corte di  cassazione
- atteso  che  sia  la  legge  ordinaria  che  quella  costituzionale
prevedono (oltre alla riserva di legge dettata dagli articoli 13 e 14
Costituzione) una riserva del potere di  perquisizione  all'Autorita'
giudiziaria, nella delineazione di una serie  di  garanzie  a  tutela
della  effettivita'  dello  Stato  di  diritto  (e   delle   liberta'
individuali che questo deve garantire), in cui i poteri della polizia
e  degli  organi  amministrativi  sono  sottoposti  al  principio  di
legalita',   prevedendosi   addirittura   una   riserva   di   potere
dell'Autorita' giudiziaria, nei casi che coinvolgono  l'esercizio  di
diritti costituzionali fondamentali dei privati  (quali  la  liberta'
personale e quella domiciliare, che ex art. 14, comma 2, Costituzione
e' «aggredibile» solo «negli stessi casi e modi stabiliti dalla legge
secondo  le  garanzie  prescritte  per  la  tutela   della   liberta'
personale»). 
    L'interpretazione dominante che comunque consente di «recuperare»
ed utilizzare gli  esiti  delle  perquisizioni  illegittime,  negando
l'applicabilita' dell'art. 191 del  codice  di  procedura  penale  al
sequestro del corpo del reato o di cosa pertinente al  reato,  appare
pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli  articoli
13 e 14 Costituzione  in  ordine  alla  perdita  di  efficacia  della
perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse  conseguenti,
allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191  del  codice
di procedura penale,  come  esistente  nel  diritto  vivente,  appare
quindi  in  contrasto  con  i  predetti  articoli  13  e   14   della
Costituzione. 
    Non e' peraltro fuori luogo osservare,  come  peraltro  da  tempo
rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema  Corte,  che
la  ragione  d'essere  della   disciplina   delle   inutilizzabilita'
stabilita dall'art. 191 del codice di procedura penale non  e'  tanto
di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore  di  riconoscere
valore probatorio  ad  atti  illeciti),  quanto  di  ordine  politico
costituzionale, essendosi rilevato che  l'effettivita'  della  tutela
dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi in caso di
assunzione di prova in violazione di un divieto,  riposa  nel  negare
ogni utilizzabilita' a quanto  cosi'  venga  acquisito:  atteso  che,
grazie  a  tale  divieto  di  utilizzabilita',  si  scoraggeranno   e
disincentiveranno quelle pratiche di  acquisizione  della  prova  con
modalita' illegali (e talora francamente  illecite),  che  violano  i
diritti costituzionali a cui presidio sono appunto  posti  i  divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali. 
    La giurisprudenza formatasi sulla scorta della  citata  C.  cass.
SS.UU. 5021/1996 realizza, pertanto, anche una violazione dell'art. 3
Costituzione, in quanto del tutto irragionevolmente ed  a  fronte  di
una   palese   identita'    di    ratio,    nega    la    conseguenza
dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 del  codice  di  procedura
penale a casi del tutto sovrapponibili  ad  altri  (per  certi  versi
addirittura meno  gravi)  per  i  quali  la  legge  espressamente  la
prevede:  basti  pensare,  ad  es.,  non   solo   alle   ipotesi   di
intercettazioni eseguite d'iniziativa dalla p.g. e quindi in  assenza
di decreto motivato dell'A.G. (caso sanzionato  di  inutilizzabilita'
dall'art. 271 del codice di  procedura  penale,  avente  la  medesima
ratio dell'art. 191 del codice di procedura penale), ma anche al caso
dell'acquisizione dei tabulati del traffico telefonico eseguito senza
provvedimento motivato del pubblico ministero, ipotesi che le  stesse
SS.UU. della Suprema Corte di cassazione hanno ritenuto dar luogo  ad
un'ipotesi di  inutilizzabilita'  della  prova  perche'  acquista  in
violazione di un divieto di legge (cfr. sez. U, sentenza n. 21 del 13
luglio 1998). 
    L'interpretazione stabilizzatasi  dell'art.  191  del  codice  di
procedura  penale,  in  tema  di  conseguenza  di  una  perquisizione
illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro,
si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di
trattamento tra  indagati  in  situazioni  del  tutto  analoghe,  con
conseguente violazione dell'art. 3 Costituzione. 
    Sempre in tema di violazione  dell'art.  3  Costituzione,  appare
necessario rilevare come tale norma si atteggi a scrigno  in  cui  e'
racchiuso  in  germe  e  riassunto   il   principio   di   necessaria
razionalita' dell'ordinamento dello Stato di diritto disegnato  dalla
Costituzione;  razionalita'  che  risulta  gravemente  violata  dalla
corrente interpretazione circa la utilizzabilita' degli  esiti  delle
perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: 
        a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza  della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
le leggi incostituzionali (argomenta ex art. 30, comma 3 e  4,  legge
n. 87/1953), e la loro efficacia sospendibile dal  giudice  ordinario
che ne ravvisi un possibile contrasto con le norme costituzionali, ma
efficacissimi, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di p.g.  -
e non disapplicabili  ne'  discutibili  dal  giudice  -  compiuti  in
violazione dei diritti costituzionali del cittadino; 
        b)  la  suddetta  interpretazione   appare   realizzare   una
negazione  radicale  dei  principi  dello  Stato  di  diritto   quale
tratteggiato dalla  Costituzione,  racchiuso  in  germe  nell'art.  3
Costituzione (come gia' si  e'  osservato),  e  piu'  in  particolare
sviluppato dall'art. 2 Costituzione, in quanto finisce per risolversi
nell'assenza di effettive  garanzie  contro  violazioni  dei  diritti
inviolabili dell'uomo, tra i quali appare senz'altro rientrare quello
alla  liberta'  personale,  laddove   invece il   suddetto   art.   2
Costituzione impone alla Repubblica  non  solo  di  riconoscere  tali
diritti, ma di garantirli: il che implica la necessaria  adozione  di
tutte le cautele necessarie non solo a reprimere, ma prima di tutto a
scoraggiare  la  violazione  di   tali   diritti;   e   la   sanzione
dell'inutilizzabilita' probatoria che discenderebbe dall'art. 191 del
codice  di   procedura   penale (nella   lettura   che   risulterebbe
dall'operazione di ortopedia  costituzionale  che  questo  giudicante
ritiene  necessaria),  nel  deprivare  di  effetti   processuali   il
risultato «probatorio» di tali violazioni,  costituisce  la  prima  e
piu' efficace forma di  garanzia  che  uno  Stato  di  diritto  possa
assicurare ai diritti della persona; 
        c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega  lo  Stato
di diritto quale configurato dall'art. 97, comma 3 Costituzione,  che
vuole  -  con  norma  generale  che  appare  applicabile  anche  alle
definizione dei  poteri  degli  organi  di  polizia  -  l'azione  dei
pubblici poteri sottomessa al principio di legalita'; se,  come  gia'
si e' osservato, in uno stato di diritto, lo Stato ed i  suoi  organi
sono  per  primi  vincolati  al  rispetto  delle  leggi  di  cui  pur
pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e se  cio'  comporta
non solo l'impegno a non violare tali leggi,  ma  anche  a  garantire
l'effettivo  rispetto  dei  diritti  che  tali  leggi  prevedono   ed
attribuiscono, appare innegabile che ammettere l'efficacia - e per di
piu' nel processo penale ed in aggressione ai diritti di  liberta'  -
degli atti compiuti dai pubblici poteri in violazione di un  divieto,
appare negare anche il principio di  cui  all'art.  97  Costituzione,
oltre ad attribuire all'azione illegale  degli  organi  statuali  una
prevalenza sui diritti  costituzionali  dei  consociati,  che  appare
realizzare, sotto questo profilo,  una  ulteriore  palese  violazione
dell'art. 3 Costituzione, in un  ordinamento  che  vuole  centrali  i
diritti inviolabili della persona - e quindi quanto meno  gli  stessi
sullo stesso piano di quelli della collettivita' e dello Stato  -  ma
finisce invece per violare tale condizione  di  pari  importanza  per
assegnare prevalenza all'interesse alla repressione dei reati; 
        d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita',
inoltre,  viola  l'art.  3  Costituzione  anche  perche',  del  tutto
irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita'
di  prove  vietate  dalla  legge  solo  in  virtu'  della  loro   non
verificabilita' (scritti anonimi,  fonti  confidenziali),  mentre  la
nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente
dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano
anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi  appunto  a  come
l'insondabilita'  degli  elementi  che  hanno  spinto  la  p.g.  alla
perquisizione non consenta di verificare la genuinita' della  «catena
indiziaria» e di escludere che possano essere stati proprio  i  terzi
autori della propalazione confidenziale o anonima (ma in ipotesi  non
risultante neppure dal p.v. di perquisizione), o addirittura  -  come
talora e' purtroppo  accaduto  -  le  stesse  forze  di  polizia,  ad
introdurre nell'abitazione la  «res  illicita»  costituente  supposta
prova del reato; cosi' evidenziandosi, sotto tale profilo,  anche  un
contrasto con l'art. 24 della Costituzione, per l'evidente limite che
la tesi dell'utilizzabilita' pone  all'esplicazione  del  diritto  di
difesa, introducendo nell'ambito delle prove utilizzabili elementi di
cui  sia  di  fatto  impossibile  verificare   approfonditamente   la
genuinita'. 
    L'interpretazione consolidatasi si pone infine in  contrasto  con
l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e quindi in
contrasto con l'art. 117 Costituzione che impone allo Stato  italiano
il rispetto delle Convenzioni internazionali, in  quanto  si  risolve
nel non adottare efficaci disencentivi  agli  abusi  delle  Forze  di
polizia, e di qualsiasi organo dello Stato in genere, che,  limitando
la liberta' della persona,  si  risolvano  in  indebite  interferenze
nella sua vita privata o  nel  suo  domicilio,  non  giustificate  da
oggettive esigenze di prevenzione o repressione dei reati. 
    A parere di  questo  giudicante,  la  conseguenza  della  dedotta
incostituzionalita' e' anche il divieto  di  testimonianza,  per  gli
operatori  di  p.g.,  in  ordine  al  risultato  delle  attivita'  di
ispezione, perquisizione e  sequestro  indebitamente  eseguite;  tale
divieto, invero, appare conseguire alla perdita di ogni efficacia  di
tali attivita'; ammettere tali deposizioni, peraltro, equivarrebbe  a
vanificare  tale  divieto  e  la  ratio  sottostante  ai  divieti  di
utilizzabilita' di cui all'art. 191 del codice di procedura penale. 
    Ne consegue che la questione e' rilevante nel  presente  giudizio
anche   laddove   si   volesse   ipotizzare,   per    ovviare    alla
inutilizzabilita' che dovrebbe essere ravvisata nelle  perquisizioni,
l'assoluta necessita'  di  procedere,  ex  art.  507  del  codice  di
procedura penale, all'ascolto dei verbalizzanti in  ordine  a  quanto
rinvenuto nell'abitazione dell'imputato ed in spazi a  lui  assegnati
all'interno  di  essa:  ed  invero,  come  osservato,   la   sanzione
dell'inutilizzabilita'  dovrebbe  investire,  in   un'interpretazione
corretta  dell'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   anche
l'eventuale deposizione in  ordine  agli  esiti  della  perquisizione
illegittima.